Incontro ecumenico di preghiera e riflessione

Martedì 4 ottobre ad Acqui Terme

La predicazione del pastore della chiesa metodista di San Marzano, Gregorio Plescan, a commento del testo biblico di

Esodo 3,1-12

L’episodio della rivelazione di Dio a Mosè nel roveto ardente è uno tra i più conosciuti della Bibbia, carico di mistero e suggestione: Dio che parla in prima persona, che si mostra in una situazione allo stesso tempo possibile (il roveto brucia) e impossibile (brucia ma non si consuma).
Dio che non si limita a parlare in modo generico, ma che dice cose che cose vanno oltre una richiesta di lode e adorazione, che annuncia il suo coinvolgimento diretto nel mondo.
Un tale condensato di immagini ed emozioni, che ci rende facile capire bene la reazione di Mosè, terrorizzata e curiosa al contempo.
Uno di quei brani che siamo più abituati ad adorare che ad approfondire, forse anche per la sensazione che non accadrà mai più, e certamente non a noi: Mosè come icona irraggiungibile, testimone antico di un incontro irripetibile.
In un certo senso non può che essere così: al di là della distanza temporale, ce n’è una esistenziale: non non siamo Ebrei in Egitto, non sperimentiamo la schiavitù, viviamo in democrazie e in una situazione di diffuso benessere, non ostante tutto.
Abbiamo però almeno un punto in comune con il personaggio di questa storia: la condizione del disagio.
Mosè è a Madian come fuggitivo. Fugge dalla sua voglia di farsi giustizia da sé conto i tiranni egizi, fugge dall’incomprensione dei suoi connazionali, fugge dal suo io diviso di Ebreo salvato dalle acque che ha vissuto gli anni della formazione alla corte di Faraone (il significato del nome Mo-ses potrebbe essere “senza un dio”).
È vero che Mosè si è integrato nel mondo dei Madianiti: ha un lavoro, una famiglia – ma la sua pronta reazione alla rivelazione divina ci fa capire che egli è l’esule che non ha dimenticato il passato da cui proviene: la sua non è una curiosità astratta, quella di uno studioso di religioni comparate ante litteram.
Questa è la condizione di molti: quella di chi vive in Italia sapendosi e sentendosi straniero.
Certamente l’Italia sarà la Patria dei suoi figli, ma è a quel punto nasceranno altri problemi e ci vorrà qualche generazione perché l’emigrato (e noi, gli indigeni) impari a capire che chi vive in Italia è italiano, come dato di fatto oltre che come diritto (e non un privilegio).
Ma è una condizione che probabilmente sperimenta anche chi non è straniero, migrante, profugo.
Questo disagio può oggi si concretizza in due elementi, non identici ma angosciosi allo stesso modo: viviamo su una terra irriconoscibile sotto il punto di vista meteorologico e in una storia che risulta sconosciuta a causa della guerra, questa parola che tutti pensavamo relata al passato o lontana geograficamente.
Basta attraversare un qualsiasi fiume per capire che c’è qualcosa che non va: nel passato per dire una banalità si diceva non ci sono più mezze stagioni, ora sembra che non ci siano più neppure le stagioni.
Il fatto stesso che stiamo cominciando a sentir parlare di bomba atomica non come retaggio della guerra fredda o come babau, ma come possibilità, ci dà il polso di questo inquietante estraneità con la storia che stiamo vivendo.
Certo la parola “disagio” rispetto alla guerra può parere debole, ma non possiamo certo paragonare la nostra condizione alla tragedia degli Ucraini – eppure scoprire che la guerra esiste ed è sempre esistita e può avere conseguenze anche sulle nostre vite non è per nulla scontato. Sicuramente imprevisto dalla maggioranza di noi.
Spesso sottolineare il senso di frustrazione e di impotenza ci porta prima di tutto, quasi automaticamente, a compiangerci. Ma questo significherebbe avere l’approccio opposto a quello dell’incontro tra Mosè e Dio: l’incontro tra Mosè e Dio non è qualcosa da commemorare, ma a cui guardare con attenzione, come ispirazione.
Pensiamo all’immagine di Dio, un arbusto che arde ma non si consuma. Una passione che si auto-alimenta, che trova combustibile dal suo stesso essere.
Così è l’amore di Dio per il mondo, così è la passione che siamo invitati ad avere e a condividere.
L’incontro con Dio del Sinai è un invito a cambiare atteggiamento verso il mondo, a guardarlo con occhi diversi, perché sappiamo bene che anche il disagio si auto-alimenta: come diceva Nietzsche: se scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te.
L’incontro con Dio permette di invertire questo approccio al mondo, perché – pur con tutti i limiti che conosciamo e che sono reali – anche noi abbiamo possiamo sperimentare qualcosa di simile a quel che ha vissuto Mosè.
Sapendo che la fede non si gioca in un mondo in cui tutto è risolto – anzi, l’elenco dei popoli che gli Ebrei dovranno affrontare, il fatto stesso che questo brano sia poi l’introduzione al braccio di ferro epocale tra Mosè e Faraone ci ricorda che nella vita tutto non è risolto per nulla.
Ma sapendo anche che in questo mondo e in questa vita non siamo abbandonati, ma che Dio si lascia coinvolgere attivamente nella storia umana: ho osservato… ho udito… conosco le sue sofferenze… sono sceso per liberarlo!

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